Luca Capuano

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Il Paesaggio deScritto

Il Paesaggio deScritto – 2010

 

La scrittura e il paesaggio
di Pierfrancesco Frillici

Ogni tanto faremmo bene a rispolverare quei vecchi dizionari scolastici che abbiamo lasciato per anni ad ammuffire in soffitta. Uno fra i più dimenticati è quello di etimologia, una scienza antica ma di sicuro non antiquata.
Prendiamo ad esempio il termine “fotografia”. È stato Sir John Herschel, celebre scienziato di età vittoriana, ad avere la geniale intuizione di fondere il sostantivo greco phos ‘luce’ con il verbo gràphein ‘scrivere, disegnare’, dando origine a quello che oggi chiameremmo un neologismo: photo-graphia, ovvero “scrittura della luce”.
L’etimologia non si limita a elencare dei nomi, per quanto possano essere celebri e memorabili, ma fa molto di più: ne svela i segreti.
La fotografia, senza ombra di mistero, è una scrittura che lascia delle impronte visibili, però queste sono molto diverse dai segni delle altre forme di rappresentazione. Infatti, se per decifrarle volessimo riferirci ad analogie o a corrispondenze genealogiche con le altre scritture, andremmo fuori strada. Senza poi contare l’assoluta follia dell’impresa: che sarebbe un po’ come raccontare la storia dell’intera civiltà umana in poche righe. E siccome molto spesso le revisioni frettolose della storia non riescono a tradurre tutta la verità, è meglio lasciar perdere le cronache, le cronologie, i documenti e le filologie.
Abbiamo detto però: “segni visivi particolari” che si depositano. Bene, quelli di stampo fotografico possiedono una facoltà straordinaria nella quale si racchiude il loro affascinante segreto: danno corpo a qualcosa che non ce l’ha. Perché sono traccie “scritte” grazie all’azione della luce. Non grafie simboliche come le rappresentazioni verbali, ma trasferimenti, calchi permanenti nello spazio dell’immagine.

Le scritture sono sempre vincolate a un riferimento. Sono cioè descrizioni, dove il prefisso latino “de” concerne l’atto del riferirsi a qualcos’altro di preesistente. A riprova, pensiamo per esempio al fenomeno della luce. Essa non si propaga mai nel vuoto, ma trascina con sé tutto ciò che si interpone al suo passaggio. Per questa ragione l’atto foto-grafico esprime il rapporto con l’oggetto esterno (dal latino obiectum ‘ostacolo’) al massimo grado. E tuttavia, ogni volta che si stabilisce un contatto, si determina anche una differenza, ossia una modalità di scrittura.

Simili eppure diverse le scritture fotografiche sono disciplinate e arbitrate da un istituto di garanzia, o, come direbbe Ferdinand de Saussure, da una langue in grado di consentire alle sue innumerevoli varianti, le parole della descrizione, di appartenere a un sistema culturale organico. Tale codice è la prospettiva, la grammatica della camera oscura, le cui applicazioni hanno di volta in volta costituito quella sconfinata fenomenologia degli stili fotografici che si sono susseguiti dalle origini all’era digitale.

Ma come rappresentare le diversità, vale a dire come eseguire una “descrizione di descrizioni”? La risposta possiamo schematizzarla in due grandi modelli retorici, “bipolari”, che, pur restando soggetti a continue oscillazioni e intersezioni, semplificano la complessità dei casi. Nel primo, l’atto della descrizione mira a svincolarsi, guadagnando autonomia, dal referente di cui trattiene soltanto gli aspetti più essenziali; nel secondo, invece, tende a sovrapporsi, a mimetizzarsi in modo speculare. Parafrasando Kandinsky, la rappresentazione si divide in due tendenze fondamentali, l’astrazione e il realismo: dalla massima riduzione strutturale dei fenomeni, alla massima eccedenza dei loro connotati fisici e materiali.
Guardando a distanza, senza entrare nel merito delle vicende storiche, notiamo che nel percorso evolutivo della scrittura fotografica si può individuare una prima fase in cui ha prevalso il modello del realismo naturalista, della descrizione analitica che enfatizza i dettagli infinitesimali; e poi una fase successiva, in cui è avvenuto un ribaltamento. Il modello ha cambiato impostazione di metodo, preferendo mosse più larghe e compendiarie: una via che ha condotto alla “sintesi” dei dati elementari, alla misurazione delle strutture generali e alla gestione razionale degli equilibri e delle funzioni. Il paradigma della descrizione, plastico e flessibile, si è modificato senza scomparire. Il nuovo orientamento, all’inizio del XX secolo, ha fatto sì che la fotografia non prendesse più le sembianze di una mera trascrizione oggettiva, di una riproduzione tattile dei fenomeni naturali, ma che diventasse il risultato di una trasformazione.

Nella scrittura fotografica alla capacità di trasferire si affianca sempre quella di visualizzare: lo spazio, trattenuto all’interno di una proiezione prospettica, ha sempre una sua forma. Mi piace pensarlo come l’esercizio di un doppio movimento: uno di andata verso un punto esterno e un altro di ritorno nell’immagine. C’è un tempo preciso in cui la soglia della distanza fra l’obiettivo e il mondo viene superata e un altro in cui viene ripristinata. Da questa specie di intervallo respiratorio fra il guardare e il vedere si completa la definizione dello spazio e, di conseguenza, nasce ciò che comunemente chiamiamo paesaggio. Sì perché, a dispetto di quanto siamo soliti pensare, il “paesaggio” non è altro che un avvenimento, l’espressione di un incontro con ciò che ci si presenta davanti in un determinato momento. Se quindi è implicito nel processo fotografico, non potrà non essere condizionato dai linguaggi, dagli stili, dalla retorica delle descrizioni.

La svolta novecentesca che vede l’affermazione di un secondo polo, trova uno snodo cruciale nell’estetica del modernismo americano. Alfred Stieglitz e i fautori della cosiddetta “fotografia diretta” sbarrano le porte al naturalismo delle arti tradizionali in nome di un’immagine perentoriamente oggettiva ma indipendente dalla mimesi del reale. Paul Strand descrive la realtà radicalizzando la forma elementare dei fenomeni: il documento fotografico resta una semplice superficie combinatoria di piani di luce e di segmenti d’ombra, a discapito del riconoscimento dei soggetti inquadrati.  Non viene contestato l’approccio obiettivo al mondo esterno, lo spazio fotografico rimane scrittura “prospettica”, soltanto che la lucidità, la trasparenza dell’immagine, senza trucco e senza inganno, deve rispecchiare solo le quote strutturali delle figure, i profili geometrici, le icone lineari e non più i volumi plastici, proprio come possiamo constatare nelle spettacolari visioni scenografiche di Charles Sheeler. Tutto questo per superare le frontiere della percezione abituale e rinnovare la ricerca; così come vanno facendo nei medesimi anni l’Astrattismo e il Cubismo in seno alle arti visive.
Infatti il monito viene afferrato al volo dai maestri delle avanguardie artistiche europee che osano una trasgressione stilistica dei canoni ancora più estrema. Arrivando all’eliminazione totale dell’impalcatura prospettica e alla smaterializzazione del corpo stesso dell’immagine in polvere di sola luce.

Certo il massimalismo dell’estetica sperimentale non ottiene consensi unanimi. Molti preferiscono riportare la fotografia agli scopi funzionali per cui era stata generata. In fondo alla radice dell’istanza modernista c’è la questione irrisolta di come rappresentare e documentare.
A tal proposito è interessante soffermarsi sulla vicenda italiana, forse un po’ tardiva rispetto ai tempi dell’evoluzione europea, ma non meno feconda. Un’esperienza che vede i professionisti di più settori, quali ad esempio l’architettura, riappropriarsi, ancor prima degli artisti, del mezzo fotografico come strumento di conoscenza e di progettazione. Basti ricordare la figura di Giuseppe Pagano, per cui l’immagine fotografica non può fare a meno di essere paesaggio, e al contempo divenire espressione di stile e di pensiero costruttivo. Anche se si perde di vista il soggetto, resta doverosa l’interpretazione dei luoghi.
Sono gli anni di maggior successo per le poetiche “astratte”, ma di certo non si è trattato di vuoti formalismi. Gli autori fotografici puntano al concreto, sono designer intenti a plastificare una nuova società e un nuovo mondo.
Così, attraverso queste concezioni “architettoniche” della visione e della scrittura, filtrate nella forma e nei contenuti dalla fotografia modernista, si compongono nuove modalità per l’immagine del paesaggio.

In seguito, durante gli anni del boom, la pratica dell’architettura, la fotografia del territorio in mutazione, la comunicazione visiva, e l’editoria sia di nicchia che di massa continuano a diffondere modelli di progettualità in cui la descrizione visiva documenta con perizia i luoghi dei suoi interventi, ma secondo gli aggiornamenti stilistici e linguistici importati dall’estero. Una figura chiave è sicuramente Paolo Monti, autore di memorabili campagne fotografiche in ambiente urbano. Per lui mai nessuna schedatura archeologica del monumento, ma sempre tante scomposizioni dei contenitori spaziali, come se fossero “testi”, partiture di elementi, di piani e di ordini architettonici: non l’isolamento di un oggetto emblematico, ma la ricollocazione dei segmenti visivi all’interno di una sequenza. Da vero interprete della geometria economica del modernismo, Monti cancella dall’inquadratura sia la ridondanza dei dettagli artificiali (insegne, manifesti, segnali stradali), sia la presenza ingombrante degli esseri umani (automobilisti e passanti). La precisione millimetrica, lenta e meticolosa dell’organizzazione visuale intrappola l’attenzione dell’osservatore. Come felicemente intuiva anni or sono Italo Zannier, si passa dalla “mitragliatrice” alla “balestra”. Dalle raffiche del reportage che scivolano sulla precarietà degli eventi agli equilibri balistici e alle calibrature tonali della “Scuola di Chicago” di Harry Callahan e dei suoi omologhi europei, che sospendono il momento fuori dal tempo.

Negli anni a venire le cose cambiano di nuovo. La riscoperta di Walker Evans disciplina gli entusiasmi per l’una e per l’altra parte. E inoltre suggerisce alla “scrittura fotografica” dei luoghi che è urgente imparare a “documentare lo stile” secondo ritmi pausati e ragionati contrari alla frammentazione accelerata delle riviste e della televisione. Una frattura netta fra la fotografia di ricerca e l’industria culturale.

Questi e altri problemi restano alla base del lavoro fotografico di chi, in piena stagione concettuale, parla della rimozione dei codici e dell’abolizione dei format usurati a favore di un ritrovato “anonimato stilistico”, ma anche di una voce più personale. Le cosiddette “nuove topografie”, come vengono chiamate in memoria degli illustri precedenti ottocenteschi, non possono restare fedeli alla scienza del documento integrale, puro e oggettivo, ma nemmeno alla sovranità dell’individualismo romantico capitanato dai vari Weston, Adams e dai loro epigoni, ormai sciupato in vedutismo per turisti.

A margine di queste riflessioni che riguardano il problema dell’interpretazione, il paesaggio in fotografia presenta un altro risvolto che accomuna gli americani di allora e gli europei venuti subito dopo; come anche le varie “scuole” partorite dalla loro lezione negli anni ottanta e novanta, includendo le ricognizioni più recenti. La volontà di continuare l’esplorazione e la documentazione dello spazio, ma facendo sì che la scrittura di tale esperienza si risolva in un progetto esclusivo: il libro d’autore.
A questa collana editoriale sarebbe giusto a questo punto, infilare un ultimo anello: tale ovviamente solo per ragioni anagrafiche.

Luca Capuano, dunque, con questo progetto dedicato ai siti italiani, patrimonio dell’Unesco, fotografa scrivendo e ragionando in forma di libro e si segnala quale erede legittimo di questa filiera di esperienze.
Se sfogliate le pagine, non troverete però scatti che tentano di articolare parole, frasi, o lunghi sermoni; bensì soltanto indizi, sicuri di fornirci la percezione di un movimento. Un passo in sequenza che fa l’andatura, ecco, e che descrive un percorso di vista. Come se vedere per lui voglia dire accompagnare un altro osservatore (il “lettore”) entro passaggi motivati, guidandolo alla scoperta di qualcosa che da solo non avrebbe mai visto.
Il viaggio è sempre foriero di continue novità e allora bisogna costruire una visione non più riassuntiva, isolata, onnicomprensiva, ma discreta, sequenziale, fatta di giustapposizioni serrate che collimino con i passi della macchina fotografica.
Questa perlustrazione dello spazio, lungi dall’imitare il cinema, produce però un effetto “cinetico”: nel senso che allinea una serie di punti di vista consecutivi “trovati” durante uno spostamento. Molto riuscito, in questo senso, l’itinerario intravisto ad Alberobello, con la strada che si snoda fra le abitazioni in muratura. Oppure il paesaggio “di passaggi” ad Agrigento, il “tempio” del Grand Tour, nel quale i luoghi delle rovine non vanno solo contemplati, ma pure attraversati come le soglie di un sentiero non tracciato sulle carte.

Si avverte ad ogni incontro con le immagini quanto l’impulso a spostarsi possa diventare inarrestabile. Permane una sensazione di instabilità, magari sotto traccia.
Se provassimo a leggere una sola inquadratura alla volta, estraendola dalla continuità della scrittura, noteremmo che quasi mai resta ancorata al contesto in cui si situa. Pur trattandosi di monumenti storici, molto famosi, ad alta riconoscibilità pubblica, gli elementi interni alla singola immagine vengono sempre scelti e organizzati in modo tale da apparire autonomi da tutto il resto. Ci offrono il destro la Basilica di Assisi e il Duomo di Pienza: due esempi paradigmatici per la dialettica instaurata con i loro “d’intorni”.

Nel paesaggio visto da Capuano è come se lo scatto riuscisse a infliggere alla scena conosciuta, e scimmiottata in decenni di souvenir turistici, un colpo di arma da taglio. Cesure certo, che però, a ben guardare, preservano tratti di congiunzione, coerenza e regolarità. Talvolta su una vasta fetta d’inquadratura campeggia un oggetto in primo piano, che è poi il “lato” eletto a rappresentare l’intero sito, e talvolta la sua massa monumentale ingombra addirittura i trequarti dell’inquadratura, ma senza riuscire a sovrastare l’intero campo visivo. Una parte deve sempre coabitare con le altre che solo in apparenza sono secondarie. Generalmente codeste vengono disposte per lunghe linee diagonali fuggenti a precipizio come prospettive interminabili.
Laddove il primo piano sembra una superficie inamovibile le deviazioni laterali producono una vertiginosa sensazione di profondità. Questo è quanto accade a Crespi d’Adda, il villaggio operaio descritto con la disciplina e il rigore seriale della Bauhaus, ma non sono da meno alcuni scorci veneziani. Il doppio gioco di soste e scivolamenti, di fissazioni e spinte verso il fondo non molla mai lo spettatore.
In altri casi, la dinamica fra attrazione e repulsione si comprime, implodendo su se stessa, ma mantenendo certi scarti dimensionali, per permettere a chi guarda di avvertire una distanza fra i vari piani, un fulcro per l’attenzione. I dislivelli così si sovrappongono e, come insegnavano le vecchie teorie gestaltiche, ci fanno afferrare la profondità mediante una percezione psicologica. Senza tema di smentita, provate a cimentarvi con le destrutturazioni dello spazio nella Basilica Patriarcale di Aquileia, o con i martellanti, quasi ipnotici, rimbalzi dello sguardo fra le colonne romane di Villa Adriana!
La visione per Capuano è tutto, la veduta poco più di niente, come possiamo osservare a cospetto della costiera amalfitana o di altre località amene come le Cinque Terre o la Val d’Orcia, purtroppo non immuni dall’iconografia delle cartoline postali. L’autore, lì e in altre situazioni, per non inciampare nei rischi più ingenui, si assicura di cancellare il superfluo dalla topografia con una tattica “igienica” che ricorda il Monti urbanista. Quella che a volte diventa una forzata irriconoscibilità dei luoghi, trasfigura le forme in superfici dissestate e frammiste di sole, altalene di luci, di ombre e di colori.

Nei paesaggi di Capuano violare la sequenza vorrebbe dire fraintenderne la scrittura. Nulla è a se stante. Tutto si integra in una superficie composita, fatta di tanti tasselli perfettamente incastrati. I graffiti della Val Camonica o il ciclo superstite di affreschi pompeiani non possono considerarsi reperti strappati, ma intrecci di fili senza soluzione di continuità dallo sviluppo dei piani in cui sono inseriti.

L’obiettivo non descrive soltanto le destinazioni generiche di un viaggio, ma porta il visitatore dentro i luoghi, affinché i tesori contenuti appaiano conservati in teche geometriche, solide e strutturate, come se fossero inscatolati all’interno di “superfici profonde”. Ricordiamo per un attimo il cenacolo vinciano, che agli occhi del nostro fotografo-viaggiatore non appare come un capolavoro dipinto su una parete da ammirare e basta, ma innanzitutto come un valore tonale, perché gestisce la luce e la profondità, e un valore strutturale, poiché sorregge la cavità spaziale su cui si assesta l’angolo visuale che abbraccia l’intera stanza. Con questo sguardo così stereometrico Capuano squaderna lo spazio, e, come recita il titolo del suo libro, descrive il paesaggio.
Su questo bilico paradossale tra le relazioni e le articolazioni la vista scivola via senza sosta. Ma non è certo una corsa accelerata, poiché le alterazioni del ritmo tra un sito e un altro contiguo sono minime e quasi impercettibili; presentano, diciamo, una scansione molto cadenzata e riposante, che però non tollera pause troppo lunghe. Si sente, da lontano, l’eco dei primi tempi di Lewis Baltz.
In conclusione, chiamare questo libro un racconto, come spesso impropriamente si fa con la fotografia, dovrebbe presumere salti molto più arditi, soprattutto metaforici. A volte l’autore immette nei suoi luoghi ospiti visivi inattesi, sorprese brucianti come certe inquadrature aliene da un prima e un dopo, oppure vecchie fotografie recuperate e a prima vista incongruenti. Ma sono tutte micro-variazioni che non contraddicono la coerenza rituale.
Preferisco, quindi, l’idea, più libera e spontanea, di “percorso della visione” e non già di narrazione, troppo finalizzata a programmare, a prefigurare gli esiti sia nella realtà che nell’immaginazione del lettore.
Se poi lo sguardo a volte inciampa, oppure, lungo il cammino, prende scorciatoie impreviste che fanno perdere la bussola, niente paura! La strada è ancora lì, davanti ai nostri passi. La vita, come dice Kafka, “è una perpetua distrazione, che non lascia il tempo di prendere coscienza di ciò da cui distrae”, ma i suoi sbandamenti si fissano nella memoria con inchiostro indelebile .